
Il mio lavoro
La rubrica "Nero su bianco" è dedicata a coloro che amano scrivere e raccontare storie. Qui troverete articoli che spaziano dal cinema alla politica, dalla storia alla cultura; ma anche poesie, racconti, one shot: FanFiction, racconti di fantascienza e di crime, altri senza alcuna definizione...
Insomma, benvenuti nella mia testa.
Due Alberi
Tanto
tempo fa, in una galassia lontana lontana... scusa, non riesco a
resistere alle citazioni nerd. Però in questo caso non mi sono
discostato troppo dalla realtà; era davvero tanto tempo fa, ed era
davvero molto lontano da qui: non era un'altra galassia, ma questo
non è importante.
Questa storia non l'ho vista con i miei occhi,
ma vi posso assicurare che è vera.
È cominciato tutto per caso,
come tutte le storie belle che si rispettino; era l'anno 3857
dall'inizio di Quendë Lairë
Isil o il 1379 dalla Atan Samno Anar. Sarei felice di tradurre questi
eventi, ma non sono né un Arthòsian Nùmen né un Arthòsian Ròmen,
(gli abitanti di Arthos Nùmen e di Arthos Ròmen, rispettivamente la
parte ovest ed est di un unico regno, Arthos).
Arthos non è un
regno simile a una nostra città o a un nostro Stato, nemmeno
lontanamente; non solo per la lingua diversa, i vestiti di fibre
vegetali o gli usi differenti degli Arthòsian; Arthos è una civiltà
fondata sugli alberi; gli Arthòsian traggono dagli alberi tutto ciò
che serve ad
un essere vivente civilizzato per sopravvivere: cibo,
vestiti di fibre vegetali,
addirittura vivono sugli alberi, in
perfetta simbiosi con i volatili e i roditori che abitano i rami e i
tetti delle loro abitazioni.
Perfino la loro religione è basata
su un albero - due, in realtà: i Tâd
Doron, Due Alberi; sono posti al centro della Grande Foresta,
precisamente a metà strada tra Arthos Nùmen e Arthos Ròmen. I Due
Alberi sono senza foglie, intrecciati l'uno all'altro; uno è nero
come l'inchiostro, l'altro bianco, come l'osso; nella linfa scorre il
dono della Conoscenza: solo pochi Arthòsian possono berla, ancor
meno sopravvivono al flusso continuo di informazioni e idee geniali
che derivano dai Due Alberi.
Arthos Nùmen è una città
sviluppata nelle arti (specialmente musica e
letteratura) e nel
commercio, Arthos Ròmen nel combattimento e negli sport; entrambi i
popoli sono pacifici gli uni con gli altri, ci sono numerosi scambi
commerciali, culturali e sportivi, ma c'è e c'è sempre stata una
giocosa rivalità e vicendevoli prese in giro; solo una volta tutti
(e dico tutti) gli abitanti delle due città si sono uniti contro il
comune nemico
come l'unica città Arthos: è la storia che sto per
raccontarvi.
Era
la seconda decade del quindicesimo mese del 3857 (o 1379) quando
videro la prima traccia degli intrusi: un'impronta di una scarpa
molto diversa da quelle che tutti gli Arthòsian usano. Pochi giorni
dopo videro il primo umano armato di fucile e di altre armi mai viste
prima e che non erano non erano in grado di fronteggiare; poche ore
dopo, erano in guerra.
«È impensabile batterli!» esclamò
Quenraen, capo di Arthos Nùmen.
«Solo perché voi non sapete
combattere non significa che non abbiamo possibilità» ribatté
Gundar, re di Arthos Ròmen.
«Ma le hai viste quelle armi? Non
abbiamo nulla nei nostri arsenali in grado di reggere minimamente il
confronto».
«Arthos Ròmen resisterà fino all'ultimo uomo!»
esclamò battendo un pugno sul tavolo Falsdur, capo militare di
Arthos Ròmen.
«Allora verrete presto distrutti!» replicò acido
Marael, figlio di Quenrael.
«Che cosa proponi di fare, allora?»
ringhiò Falsdur.
«State calmi! Almeno sappiamo cosa vogliono?»
chiese Ilthil, fratello minore di Marael.
«Secondo te? La linfa
di Due Alberi, ovviamente» rispose seccato Falsdur.
«Non parlare
con quel tono a mio figlio!» esclamò Quenrael.
«Non sono io che
ho portato un ragazzino di diciassette anni ad una riunione di
guerra!».
«Falsdur...» lo ammonì rassegnato Gundar, come a
dire sono d'accordo con te, ma non peggiorare le cose.
«Signori!
Signori!» si lamentò Marael.
«Ha insultato tuo fratello!»
protestò Quenrael.
«Padre, non fa niente. Non mi sono offeso»
disse Ilthil cercando di mettere pace.
Calò un silenzio
teso.
«Quindi che facciamo? Ci arrendiamo?» disse
Marael.
«Neanche morti» ribattà duro Falsdur.
«Lo saremo
presto, se non escogitiamo qualcosa» disse Quenrael.
«Ci serve
un'idea geniale» intervenne Ilthil.
«Davvero?, non lo sapevo»
disse polemico Falsdur.
Tutti lo ignorarono.
«Non possiamo
mica farcela venire a comando!» disse Marael riferendosi
all'ultima
affermazione di suo fratello.
«Potremmo, invece... potrei provare
a...» tentò Ilthil.
«No.
No, no, no. Non voglio che uno dei miei figli muoia per la pazzia»
lo
interruppe Quenrael agitando una mano per aria, come se stesse
scacciando una mosca.
«Ma potrebbe darci l'idea conclusiva per
salvarci!» insistè Ilthil, convinto della propria idea.
«O
ucciderti fra mille sofferenze».
«Ma...»
«Ho detto no!»
quasi urlò Quenrael.
Calò
di nuovo il silenzio.
«Bene, ora che la riunione di famiglia è
finita...» Quenrael alzò gli occhi al cielo.
«Possiamo pensare
a qualcosa di concreto, per favore?» disse Falsdur.
«Falsdur!»
lo ammonì di nuovo Gundar.
«Ho detto per favore!» protestò
Falsdur.
«Ho bisogno di un po' d'aria» borbottò Ilthil uscendo
dalla stanza.
«Ilthil!» lo richiamò il fratello, senza
risultato.
Appena Ilthil uscì dalla stanza e l'aria pulita gli
entrò nei polmoni la fastidiosa nausea che l'opprimeva da circa
un'ora lo abbandono completamente; si prese un momento per ammirare
le verdi foglie
scosse da un vento lieve e fresco, le formiche
camminare sui tronchi, uno
scoiattolo correre sui rami... Ilthil
amava quel posto, e pensare che di lì a pochi giorni sarebbe stato
distrutto... lo dilaniava.
Sentì una voce chiamarlo:
«Ilthil!».
«Xava! Che ci fai qui?» chiese Ilthil
sorpreso.
«Come faresti a sopravvivere senza il tuo migliore
amico? Potresti, che so, cadere da un albero...» rispose Xava,
mettendogli un braccio sulle spalle.
«È successo solo una volta!
A dodici anni!» ribatté Ilthil indignato.
«E sto ancora
ridendo» sorrise Xava.
«Com'è andata lì dentro?» chiese Xava
tornando serio.
«Non come speravamo» rispose amaro Ilthil. «Non
abbiamo avuto un'idea decente in due ore».
«Hai
proposto...».
«Sì. Ma mio padre me l'ha proibito».
Camminarono
in silenzio per qualche minuto.
«Che cosa pensi che sia giusto
fare?» chiese Xava.
«Unirsi contro il nemico comune, e trovare
un'idea, cosa possibile solo con la linfa dei Due Alberi» rispose
immediatamente Ilthil.
«Fatelo» replicò Xava.
«Non è così
semplice: mio padre e Gundar non riescono a trovare un accordo, e
Falsdur e Marael che litigano come cani rabbiosi non sono d'aiuto»
borbottò Ilthil.
«Quindi siamo spacciati?» mormorò Xava
fermandosi.
«Se non facciamo nulla, è certo» rispose funereo
Ilthil.
«E se... se bevessimo la linfa senza dirlo a nessuno?»
propose Xava dopo qualche minuto di silenzio.
«Senza fare il
rituale? Credi che potrebbe funzionare?» chiese Ilthil aggrottando
le sopracciglia.
Xava scrollò le spalle: «Se è la linfa che ha
il potere, non vedo come può un rituale alterare la magia».
Ilthil
pensò per qualche minuto.
«D'accordo, andiamo» decretò alla
fine, senza troppe speranze; in fondo non avevano nulla da
perdere.
Xava e Ilthil si trovarono ai Due Alberi un'ora dopo:
avevano concordato che era meglio prepararsi prima di fare qualsiasi
cosa.
Ilthil aveva in mano un libro, Xava l'occorrente per
estrarre la linfa: un
recipiente d'argento con venature in oro e
bronzo, un coltello sacro con la lama d'argento e il manico di piombo
per incidere il tronco e un miscuglio di cera d'api e polvere di
perle e ossidiana per riparare il tronco.
«Non ho trovato i
petali di uilë e asëa,
non è stagione» si giustificò Xava.
«Non credo che siano
fondamentali. Dove hai trovato quella roba?» chiese Ilthil.
«Al
tempio».
«Non c'era nessuno?» chiese Ilthil stranito.
Xava
rispose alzando le spalle.
«No, si vede che sono tutti
preoccupati per l'attacco imminente. Che ci fai con quel libro?».
«Ci
sono dei testi che vanno letti per attivare la linfa in qualche modo,
credo» rispose Ilthil. «Papà quando ero piccolo mi raccontava di
continuo che è fondamentale leggere il secondo paragrafo della
settantottesima pagina mentre si beve la linfa affinché tutto
funzioni correttamente».
«Chi deve leggere?» chiese
Xava.
«Come?» chiese Ilthil con un sopracciglio alzato.
«Chi
deve leggere il paragrafo?, chi beve o quell'altro?» si spiegò
Xava.
«Beh, come si fa a bere e a parlare contemporaneamente?»
obbiettò Ithil.
«In effetti... credo di dover leggere io
allora» sospirò rassegnato Xava.
I due Arthòsian Nùmen
prepararono tutto in religioso silenzio: Xava incise il tronco liscio
e Ilthil raccolse il liquido nel recipiente; la linfa era di un
particolarissimo colore che sembrava cambiare ad ogni sguardo: ora
era argenteo, ora perlaceo, poi bronzeo, aureo, ramato, color della
giada...
Xava si preoccupò anche di "curare" l'albero con la
miscela di cera, ossidiana e perle.
Xava iniziò a sfogliare il
libro fino ad arrivare alla settantottesima pagina e lesse il secondo
paragrafo; anche se sapessi cosa c'è scritto in quel libro, non lo
potrei riscrivere: è troppo pericoloso. Quello che posso fare è
riportare ciò che provarono di Xava e Ilthil.
A Xava sembrava che
le parole arrivassero da lontano, con una voce antica, quasi divina,
che non era la sua; era come se ogni lettera scivolasse dalle corde
vocali, dalla gola, dalla lingua, dai denti e dalle labbra per
volontà di qualcun altro.
Descrivere ciò che provò Ilthil è un
po' più complicato e sarebbe un'impresa ardua anche per il più
bravo degli scrittori, per il migliore dei poeti, ma proverò
ugualmente a essere il più fedele possibile ai fatti.
La linfa
avrebbe dovuto essere allo stato solido per quanto era fredda, ma
Ilthil la sentiva comunque bruciare, dentro le viscere, passando per
l'esofago distribuendo un calore insostenibile per tutto il corpo per
poi raggiungere il cervello, che sembrava dovesse esplodergli nel
cranio da un momento all'altro; nonostante il dolore lancinante
riuscì a non urlare, ma cadde in ginocchio con le mani così tanta
forza che vedeva dei pallini gialli
e blu danzargli sulle palpebre
chiuse.
Appena Xava smise di parlare Qualcuno gli ordinò di
aprire le palpebre di scatto: lo fece. I suoi occhi erano
completamente azzurri chiari, di un colore così brillante che
sembravano mandare luce propria; Xava
quasi si spaventò quando
alzò gli occhi dal libro appena ebbe finito di leggere.
La mente
di Ilthil pensava più di quello che penserebbe un qualsiasi umano
per nove vite; in un lampo trovò il modo di costruire ali per il
volo umano e una macchina per esplorare le profondità degli oceani;
all'improvviso seppe le cure per la maggior parte delle malattie
considerate incurabili dagli Arthòsian e il modo per vivere per
sempre. Vide l'inizio e la fine dei tempi, e tutto quello che c'era
in mezzo; vide
l'Universo in ogni suo angolo, ogni stella, ogni
nebulosa, ogni pianeta; vide ogni ogni nebulosa, ogni pianeta; vide
ogni possibile combinazione di tutte le scelte che si possono
prendere in una vita di ogni essere vivente: vedeva il Caso, sapeva
leggerlo.
Una mano sulla spalla lo riportò alla realtà; spostò
lo sguardo di scatto verso chi l'aveva toccato, e vide il volto
preoccupato del suo migliore amico che gli chiedeva:
«Tutti
bene?». La voce gli arrivò lontana e ovattata, come se avesse la
testa immersa sott'acqua.
A poco a poco la sensazione d'isolamento
svanì; Ilthil cominciò a vedere il mondo con occhi nuovi: notava
cose che prima neanche riusciva a vedere, come le trame delle foglie
o i singoli peli della pelliccia di uno scoiattolo; ne era
affascinato, terribilmente.
«Tutto bene?» ripeté Xava, e questa
volta la voce gli arrivò chiara e forte; Ilthil riuscì a percepire
la vibrazione delle corde vocali.
«È incredibile...» sussurrò
Ilthil.
«È tutto a posto? S-stai per morire?» balbettò
Xava.
«No... mi sento bene; molto bene. E vedo tutto... so tutto»
rispose Ilthil.
«Oh. Bene» disse Xava sollevato, sedendosi su
una roccia.
«Hai gli occhi tutti blu. Sembra che hai due petali
di lossë al posto del bianco
e del... dell'iride» balbettò senza fiato Xava indicandosi l'occhio
destro.
«Lo so» disse Ilthil con un sorriso, alzandosi
faticosamente in piedi.
«Oh. Giusto. Sei onnisciente» disse Xava
spostando lo sguardo sui Due Alberi.
«Beh non direi proprio...»
provò a rispondere Ilthil, ma Xava lo interruppe:
«Sì, sì,
come ti pare».
I due amici si guardarono un secondo quasi con
astio, poi scoppiarono a ridere entrambi.
All'improvviso Ilthil e
Xava udirono degli squilli di corno da caccia.
«Che cos'è?»
domandò Xava saltando in piedi.
«Adunata» rispose Ilthir
lapidario.
Quando arrivarono alla Grande Piazza (una piattaforma
ottagonale enorme sostenuta da sedici alberi) sembrava che quasi
tutta la popolazione di Arthos fosse presente; con molta fatica
riuscirono ad arrivare un paio di metri davanti ad un palco
improvvisato, sul quale Quenrael, Gundar e Marael cercavano di
parlare facendosi
sentire da tutti.
«...hanno mandato un
messaggero» stava dicendo Quenrael. «Ci attaccheranno tra tre
ore».
«Ci hanno dato un'ultima opportunità di arrenderci:
l'abbiamo rifiutata» disse duro Gundar, già vestito da guerra, con
un armatura di cuoio e bronzo sopra una tunica rossa, con una spada
legata ai pantaloni neri e arco e frecce sulla schiena.
«Quindi
avete già deciso di farci uccidere?» chiese una voce dalla
folla.
«Noi combatteremo. E proveremo a resistere» rispose
Gundar. «Se dovremo morire, moriremo».
Un brusio spaventato
serpeggiò tra la folla, ma fu sovrastato da una voce alta e
cristallina:
«Forse non sarà necessario».
«Ilthil!»
esclamò sorpreso Quenrael.
Riconoscendo il nome del figlio del re
gli Arthòsian fecero passare lui e Xava fino al cospetto dei due
sovrani. Appena Quenrael guardò negli occhi suo figlio la sua
espressione passò da sollevata a preoccupata, capendo immediatamente
cosa aveva fatto.
«Ilthil...
cosa...» balbettò confuso. «Te l'avevo proibito!» esclamò
arrabbiato.
«Le chiacchiere a dopo, padre» disse freddo Ilthil
«Ora dobbiamo preoccuparci di salvare noi e i Due Alberi».
«Che
cosa avresti pensato?» chiese Gundar, ammirato dal suo gesto, ma
ancora un po' scettico.
«Abbiamo due soli vantaggi: il numero e
la conoscenza del territorio» iniziò a parlare Ilthil, rivolgendosi
alla popolazione.
«...che possono essere vanificati dalle loro
armi e dalla nostra incapacità di fermarli».
«Questo lo
sapevamo già; come pensi di fare?» chiese duro Falsdur, ai piedi
del palco.
«Con una strategia vincente e disponendo ruoli
corretti nelle truppe» rispose ovvio Ilthil. Falsdur fece per
parlare, ma Ilthil lo precedette, continuando ad esporre la sua idea.
«Sappiamo
tutti che gli Arthòsian Ròmen sono superiori a noi Arthòsian Nùmen
nel combattimento: sono più alti, più forti, più allenati, più
bravi; noi però non siamo certo da meno nel tiro con l'arco».
Un
brusio accolse le sue parole: alcuni
cominciavano a capire.
«C'è
un solo sentiero che porta ai Due Alberi» disse Ilthil, alzando
leggermente la voce per riportare il silenzio.
«...e passa in
mezzo alla Grande Foreste; gli Arthòsian Nùmen e i migliori arcieri
di Arthos Ròmen si apposteranno sugli alberi, né troppo vicini
all'inizio del sentiero né troppo vicini ai Due Alberi. Gli
Arthòsian Ròmen e i migliori spadaccini di Arthos Nùmen si
divideranno in quattro truppe,
due più numerose delle altre; una
delle due più piccole si posizionerà all'inizio del sentiero per
fargli credere che opporremo resistenza: saremo sconfitti; appena
vedrete che comincia ad andare male scappate nella Foresta, e
raggiungerete la prima truppa grande, che sarà nascosta ai lati del
sentiero poco prima degli arcieri; la seconda truppa numerosa sarà
nascosta poco dopo gli arcieri; l'ultima truppa sarà ai Due Alberi,
pronta a proteggerli se le cose si dovessero mettere male. lo sarò
sugli alberi: quando scoccherò la prima freccia sarà il segnale per
gli arcieri di cominciare l'attacco; quando sentirete il corno
suonare una volta (questo sarà compito tuo, Xava) le truppe nascoste
dovranno attaccare, chiudendoli ai due lati del sentiero. Se doveste
sentire due squilli di corno, la truppa a protezione dei Due Alberi
dovrà raggiungerci. Le persone che non sono in grado di combattere
rimarranno nascoste nelle abitazioni, pronte ad una fuga d'emergenza
se le cose si mettessero davvero male. Tutto chiaro?» concluse
Ithil.
Un silenzio irreale concluse la fine del discorso. Ilthil
sospirò rassegnato, per poi urlare a pieni polmoni: «Per
Arthos!».
«Per Arthos!!» risposero milleduecento
voci.
L'armamento procedette preciso ma rumoroso; in meno di due
ore tutti erano in posizione. Ilthil era accovacciato su un ramo, con
gli occhi fissi sul sentiero e le orecchie ben tese; alla sua
sinistra, su un ramo poco più in basso c'era Xava con il corno così
stretto tra le dita che le nocche erano sbiancate. Alla sua destra,
in piedi, c'era Asha, una ragazza di Arthos Ròmen dai capelli
ramati, famosa per le sue abilità di arciere.
Dopo poco meno di
mezz'ora udirono i rumori della battaglia arrivare dall'inizio del
sentiero.
«Arrivano» mormorò Ilthil.
Dopo neanche dieci
minuti sentirono il fruscio delle foglie spostate dalla corsa degli
Arthòsian che si ritiravano. Ilthil udì prima degli altri le
esclamazioni di trionfo degli uomini armati che arrivavano.
Tolse
l'arco dalla schiena e incoccò una freccia: aspettò
qualche decina di secondi; appena il nemico fu a dieci passi dalla
truppa alla fine del sentiero, scoccò.
In pochi istanti una
pioggia di frecce si abbatté su quegli uomini: molti caddero.
Appena
Ilthil notò che stavano iniziando a riorganizzarsi fece cenno a Xava
di suonare il segnale; non aveva neanche abbassato il corno dalle
labbra che due truppe urlanti travolsero il nemico chiuso come un
topo in
trappola.
Xava smise di scoccare frecce e chiese a
Ithil: «Sai come finirà?».
«Vedo solo le varie
possibilità».
«In quante non ci massacrano?» chiese
Xava.
«Tre».
«Su?».
«Undici milioni e 487» rispose
lapidario IlthiL
«E noi in quale siamo?».
«Se lo dico non si
avvererà».
«Bene» disse ironico Xava incoccando una nuova
freccia.
La battaglia proseguì con la stessa ferocia con la quale
era iniziata. Alcuni arcieri, finite le frecce, scesero dagli alberi
per dare manforte ai soldati a terra.
All'improvviso udirono una
specie di rombo ripetuto; Ilthil imprecò.
«Che cos'è?» chiese
Xava a Ilthil.
«Qualcosa che non doveva succedere».
Si
arrampicò in fretta fino alla cima dell'albero e urlò: «Mirate
all'enorme insetto di ferro!».
Gli arcieri cambiarono obbiettivo
e iniziarono a mirare alla macchina volante.
Gli uomini
sull'elicottero cominciarono a sparare sugli alberi.
Molti arcieri
caddero.
Senza il sostegno delle frecce le truppe a terra si
trovarono in difficoltà, e
cominciarono a non riuscire a
contenere il nemico. Ilthil ordinò a Xava di suonare il corno due
volte, ma neanche la truppa che arrivò riuscì a rovesciare in
meglio la situazione.
«Ilthil, qui si sta mettendo davvero
male...» disse Xava all'amico.
«Lo vedo» rispose lapidario.
Controvoglia, Ilthil si costrinse a urlare a pieni polmoni:
«Ritirata!».
Gli Arthòsian a terra cominciarono ad
indietreggiare verso la città e gli arcieri scesero dagli alberi.
Ilthil bloccò Asha e le disse:
«Dì a tutti di scappare verso
nord, o verremo distrutti».
Lei annuì e corse via.
«Siamo
messi così male?» chiese Xava. Ilthil non rispose e gli ordinò di
seguirlo.
«La città è dall'altra parte...» disse Xava a Ilthil
timidamente.
«Lo so. Sto andando ai Due Alberi» Ilthil fermò la
corsa, afferrò un braccio di Xava e lo guardò negli occhi: «Non
possiamo permetterci che la linfa
finisca nelle loro mani. Farai
tutto ciò che ti dico» ordinò Ilthil a Xava.
«D-d'accordo...
ma che vuoi fare?» chiese confuso e spaventato Xava.
«Fidati di
me» gli rispose Ilthil,ricominciando a correre verso i Due
Alberi.
Arrivarono dopo pochi minuti; i Due Alberi si ergevano in
tutta la loro potenza; il taglio che avevano fatto era completamente
rimarginato.
Ilthil aprì la borsa che aveva portato con sé e che
Xava non aveva notato prima; Ilthil ne tirò fuori zolfo, carbone,
salnitro, pece, calce viva, un coltello, una scatola di legno, uno
spago, una boccetta vuota e una piena
di un liquido
semitrasparente.
«Che cosa fai?» chiese Xava confuso. Ilthil
passò il coltello e la boccetta vuota a Xava e gli ordinò:
«Riempila con la linfa».
Seppur inquietato, Xava eseguì; poi
chiese di nuovo, con più forza: «Che cosa fai?».
Ilthil aveva
mischiato tutti gli ingredienti nella scatola e, richiudendola, aveva
lasciato uno pezzo di spago sporgere dal coperchio; assomigliava ad
una bomba.
«Non possiamo permettere a quegli uomini di prendere
la linfa» rispose Ilthil. «A costo di perderla noi stessi».
«No!
Non puoi farlo!» esclamò Xava spaventato.
Fin da piccolo gli
avevano insegnato che i Due Alberi erano sacri: l'idea che il suo
migliore amico stava per distruggerli lo terrorizzava.
«È
l'unico modo» disse Ilthil convinto.
«No!».
Xava si lanciò
contro Ilthil nel tentativo di toglierli di mano la bomba, ma fu
distratto dai soldati nemici che irruppero nello spiazzo; Ilthil
spinse Xava a terra e accese lo spago con un fiammifero.
Un
guerriero nemico gli urlò di fermarsi puntandogli un fucile addosso;
Ilthil lo ignorò e lanciò la bomba fra i rami spogli degli Alberi;
l'uomo sparò a Ilthil, uccidendolo.
Contemporaneamente, la bomba
esplose incendiando il tronco e il corpo dell'amico. Nella confusione
generale Xava riuscì a recuperare l'ultima fiala di linfa ancora
esistente e scappò nel bosco verso nord.
Dopo un'ora arrivò
all'accampamento improvvisato e affannosamente chiese di vedere i due
re.
Lentamente e faticosamente, spiegò l'accaduto ai
sovrani.
Dire ad un padre che il figlio è stato ucciso e che non
poteva nemmeno seppellirlo fu la cosa più difficile e dolorosa che
Xava fece in tutta la sua vita.
Era questa, la storia che volevo
raccontarti, ora che hai raggiunto l'età per conoscerla; gli
Arthòsian fondarono due nuove città, Nuova Arthos e Arthos Ròmen
seconda.
Xava visse la sua vita, si sposò ed ebbe due figli, ma
non dimenticò mai il sacrificio dell'amico.
Nessuno lo dovrebbe
dimenticare, noi due meno degli altri figlia mia; la società dove
oggi viviamo sfrutta gli alberi, gli distrugge, non ha idea di che
enorme importanza hanno e avevano per il nostro popolo.
I figli di
Xava viaggiarono ed arrivarono fin qui: uno ripartì e uno, Neloran,
rimase; era un tuo antenato.
Ora tu puoi anche non credere ad una
sola parola di tutto quello che ho scritto, ma so che in fondo sai
che è tutto vero.
Post Scriptum: non ti è mai sembrato un
po' strano quel soprammobile a forma di fiala pieno di liquido
cangiante?
Nicolas Ugolini
Battito di ciglia
La morte non è la fine;
anche quando smetteremo di respirare,
resterà sempre un segno del nostro passaggio,
nelle persone che abbiamo conosciuto, in ciò che abbiamo pubblicato su internet.
La morte non è nemmeno l'inizio,
poiché, per noi, non ci sarà nulla dopo.
È solo un capitolo, nella nostra vita e in quella degli altri,
l'unica cosa che accomuna tutti gli esseri viventi.
La morte è ciò che, più di tutto, ci rende uguali agli altri
ma diversi, poiché nessuna morte è uguale ad un'altra.
Ma alla fine siamo solo cibo per vermi,
e ci sarà un momento in cui nessuno si ricorderà più di noi,
e tutti i nostri sforzi, i nostri traguardi, le nostre paranoie, le nostre lotte
saranno vane.
Siamo solo un battito di ciglia in questo tempo infinito. Nicolas Ugolini
.
Denaro
Io sono denaro;
sono una banconota da cinquanta stropicciata,
passata di mano in mano.
La gente imbroglia, uccide
per avere me e i miei simili,
per me ed altri pezzi di carta stampata in modo particolare.
Cosa può esserci di più stupido, lottare per un pezzo di carta?
La gente ci ruba;
ma non ho mai visto rubare un libro,
eppure siamo della stessa carta.
Non ho mai visto lottare per un libro,
eppure il materiale che ci compone è lo stesso.
Non ho mai visto lottare per un albero,
eppure vengo da lì;
ed è indubbio che un albero è molto più utile di me.
Insomma, sono gli alberi che fanno l'ossigeno senza il quale morireste,
eppure abbattete gli alberi per fare noi:
inutili pezzi di carta,
pregni di un significato che vi avete appioppato voi ma che non abbiamo mai avuto, e mai avremo:
pretendete che vi compriamo la felicità,
ma cosa cazzo pretendete da dei pezzi di carta
pregni di un valore simbolico che ci avete addossato voi? Nicolas Ugolini
Yin e yang
Non esiste il bene,
non esiste il male,
e lo yin e lo yang sono solo una presa per il culo.
Esiste solo la bellezza, che è ovunque.
Esiste la bellezza del mare in tempesta
che non è cattiva, non è buona,
è vero, può ucciderti, ma è così bello,
il mare in tempesta.
Il karma è solo per costringere la gente a comportarsi bene
minacciandola con un'improbabile vendetta divina.
Esiste la soddisfazione del primo tiro di una sigaretta,
esiste la bellezza del cielo di notte.
Esiste la bellezza della solitudine
ed esiste la bellezza della compagnia.
E non c'è il bene,
non c'è il male,
è tutto un dannato punto di vista
che la gente moralista
usa per far sentire in colpa chi non si conforma alla società.
E lo yin e lo yang sono solo una presa per il culo. Nicolas Ugolini
Spacciare poesia
Disperdete la poesia,
fate di questo un'arte.
Dilagatela.
Spacciate versi come fossero erba,
buttatela in pasto agli ignoranti,
vedi mai che imparino qualcosa.
Drogatevi di poesia,
ubriacatevi di rime come fossero il vostro liquore preferito.
Brutti idioti accecati dalle luci della moda e della novità.
Sprecatela, la poesia.
Prendete una qualsiasi minchiata e fatela diventare poesia,
così da dare un senso a tutto
questo niente. Nicolas Ugolini
Vivo a testa bassa
Vivo a testa bassa;
non per codardia o sottomissione
ma per evitare un dolore
che mi insegue dalla nascita,
un mostro indefinito dai contorni sfocati
che delinea ogni istante della mia vita,
ogni respiro sospirato
ogni pianto disperato
ogni bacio rubato
e bruscamente interrotto.
Vivo a testa bassa per evitare il mio riflesso,
come se potesse rompere lo specchio
e pugnalarmi nella pompa che ho in mezzo al petto
e crudelmente uccidermi
con un solo sguardo.
Vivo a testa bassa, sperando di essere invisibile agli occhi della gente,
spero di confondermi tra lo sguardo assente
e frettoloso
di chi per lavoro o vita privata corre per strada addolorato o gioioso
quindi alzo il cappuccio e corro anche io,
nascondendomi tra valigette nere e sogni rinchiusi sotto la pelle,
cuciti,
tenuti nascosti per non essere derisi.
Vivo a testa bassa,
fuggendo lo sguardo dell'unica persona che non posso evitare;
scappando da me stesso, correndo via, più veloce del vento
sperando di seminare dolore, odore, pudore, pelle viva che mi taglio via di dosso;
vedo rosso:
non sono nel mio posto. Nicolas Ugolini
Spartiti in metro
Hai in mano uno spartito.
Aspetta: uno spartito?
Perché hai in mano uno spartito?,
perché stai cercando di leggerlo nella calca
e perché io morirei per esserne la carta?
Non riesco davvero a capirlo.
Vorrei tanto sentirti suonare,
le tue dita sembrerebbero pronte ad accarezzare
i tasti d'avorio di un pianoforte,
ma i tuoi occhi decisi
sembrerebbero guardare violini
e violoncelli,
i tuoi avambracci scolpiti
sembrerebbero aver la forza di picchiare una batteria,
eppure le tue labbra rosate
sembrano non vedano l'ora di cantare
la melodia
che stai leggendo,
mentre con un dito premuto sulla pagina tieni il segno.
La tua mano sinuosa sposta i ricci dai tuoi occhi, rivelandoli a me;
sono di un verde così intenso,
sembrano gli occhi di un re
di un reame nel bosco;
forse è un flauto lo strumento che trasformerà l'inchiostro
in melodia.
Ma pensa, spartiti in metro! Che follia;
oggigiorno si vede qualsiasi pazzia,
come chiedersi che suono ha l'amore
in mezzo al rumore
della città. Nicolas Ugolini
Anima complementare
"Taci", diceva D'Annunzio,
io ti dico "Urla", prima che arrivi l'alba,
urla come se il tempo non fosse abbastanza
per esprimere quello che hai dentro,
tu che di Vivaldi ascolti "L'inverno" d'estate
e "L'estate" d'inverno,
anima complementare col resto del mondo.
Tu che nasci di notte e muori di giorno,
che aspetti con ansia il tuo turno,
ma sei troppo altruista: avanti il prossimo.
Seduta sotto un frassino
alzi il mento
per osservare il firmamento,
sentendoti parte dell'universo;
sei incurante del tempo avverso.
Canticchi un pezzo di quell'opera che ti piace tanto
e mentre attraverso il campo
per raggiungerti
mi pianti i tuoi occhi verdi addosso,
inconsapevole che con uno sguardo puoi distruggermi.
Mi fai segno di sedere su un sasso
e di guardare il cielo insieme a te:
tu la mia regina ed io il tuo re.
Mentre mi indichi Orione
e l'Orsa Maggiore
mi insegni ad amare:
mi aiuti a colmare
il vuoto che ho dentro
con un semplice bacio sotto il firmamento. Nicolas Ugolini
.
Paradosso
Essere me significa essere cinico ma empatico,
realista ma sognatore,
entusiasta ma apatico.
Significa ricercare il brivido e la suspense ma amare lo stile hygge,
significa essere solo testa ma amare innamorarsi,
significa essere per il progresso e accoglierlo con entusiasmo
ma al contempo amare l'antico ed esserne attratti come una calamita.
Essere me significa essere una delle persone più serie del mondo ma amare ridere.
Significa essere piegato dal dolore ma amare la vita.
Sono un paradosso:
non mi piaccio ma penso di essere migliore di tanti altri,
penso di non aver paura di niente ma non ho il coraggio di dire agli altri chi sono.
Questo, significa essere me: una persona dalla vita e la mente complicata che ama la semplicità.
Un paradosso.
Nicolas Ugolini
Un tatuaggio a forma di cuore
«Cos'è quel tatuaggio?» Mi chiede.
«Nulla d'importante, l'ho fatto quando andavo al liceo».
«È fatto bene però» commenta osservandolo meglio.
«È solo un cuore, non ci vuole un gran tatuatore per farlo!» Esclamo ridendo.
Ma davvero è solo questo? Certamente, direte voi. E io vi darei anche ragione: è solo un cuore, un piccolo cuore sul polso sinistro, totalmente insignificante. Vi darei ragione, se non significasse di più.
Non si direbbe, a vederlo. Non si direbbe neanche conoscendo la storia di come l'ho fatto: in una notte di dissolutezza degli ultimi anni del liceo, tra fiumi di alcol e fumi di sigarette e di ganja. Girava una macchinetta per i tatuaggi, una di quelle amatoriali, e io, reso coraggioso e spavaldo dai litri di vodka che mi avvelenavano il sangue, mi sono offerto volontario.
Vabbè, hai scelto il soggetto più banale di tutti, il classico cuoricino, direte. E nuovamente vi darei ragione, probabilmente quando l'ho fatto la pensavo come voi, ma adesso...
adesso riesco solo a pensare a quando credevo ancora nell'amore.
Quando bastava solo un sorriso per farmi venire le farfalle nello stomaco e uno sguardo per farmi innamorare.
Adesso invece non mi capita più. Sarebbe troppo facile dare la colpa all'età o all'abitudine, perché so che non è così.
So che è colpa tua.
Beh, tecnicamente sarebbe mia la colpa, per averti dato tutto quel potere su di me.
Però io non c'entro con la tua scomparsa dalla mia vita, io non ti ho chiesto di andartene.
Per la verità neanche tu l'hai deciso.
Si può dire che non è colpa di nessuno dei due.
Non è nostra la colpa della tua morte.
Però io non posso fare a meno di avercela con te.
Lo so che è maledettamente illogico, ma cazzo, gli esseri umani non sono fatti solo di logica.
Non posso fare a meno di scoppiare a piangere se capita in radio la nostra canzone, non posso fare a meno di elencare tutte le cose che avremmo potuto fare e che invece non faremo.
Non posso fare a meno di pensare che non ti rivedrò mai più.
Non potremo rivederci neanche dopo la mia, di morte, perché (ammettendo che dopo ci sia veramente qualcosa) io finirò sicuramente all'inferno, mentre tu sei di certo in paradiso; non potrebbe essere altrimenti. Perché cavolo, sei un angelo, lo sei sempre stato.
Un bellissimo angelo dagli occhi verdi e dai capelli neri.
Mi ti immagino, in paradiso, con una veste verde scuro e delle stupende ali d'oro.
Io invece sono con i soliti jeans navy, sformati e sempre più rovinati, e la maglietta dei Pink Floyd che mi hai regalato qualche compleanno fa. Mi accendo una sigaretta, la terza oggi, e per quanto voglia ardentemente il fumo e la sensazione di benessere che ne consegue, ora la sola ed unica cosa che desidero veramente è correre a casa tua: tra le tue braccia; tra le tue labbra.
Ancora mi chiedo come sia possibile morire così, gratuitamente; innocente vittima di un ubriaco al volante.
E io non posso non sentirmi in colpa, perché tu quella strada la stavi attraversando per venire da me.
Quanto vorrei essere io al tuo posto.
E non fatevi ingannare dalla parvenza di altruismo, questa è una delle frasi più egoista che possiate mai sentire;
perché la morte è qualcosa che capita a chi resta.
Mi manchi, sai? Non so se prima l'avrei ammesso, sono troppo orgoglioso.
Ma adesso chissenefrega dell'orgoglio, adesso farei qualsiasi cosa, qualsiasi, per averti con me anche per un solo giorno.
No, non è vero: è una cazzata, una frase fatta; io con te voglio passare tutta la mia vita, voglio sposarti, voglio invecchiare amandoti. Voglio un bambino che mi chiami papà, e voglio averlo con te.
Voglio leggere e leggerti tutti i libri che abbiamo, e poi comprarne altri, così poi ne parleremmo insieme.
Voglio suonare con te, io al pianoforte e tu al violino, come ai vecchi tempi, quando eravamo solo dei ragazzini.
Ma so che questo non è possibile.
Tu sei dentro una tomba.
Tomba che non ho neanche mai visto.
Scusa se non sono venuto al tuo funerale.
Non ce l'ho fatta, mi dispiace.
Ma tanto non sarebbe cambiato molto.
Tanto non cambierà niente.
Tanto non credo più nell'amore.
E se non ami, che senso ha la vita? Nessuno.
Però avete ragione, il cuore è un soggetto banale. Magari domani vado a coprirlo.
Avete ragione, è un tatuaggio insignificante.
È solo un cuore.
Però non credo che lo coprirò;
perché è l'unico cuore che mi è rimasto.
Nicolas Ugolini
Le due facce della Seconda Guerra mondiale
Tutto è un è un punto di vista.
Questa precisa convinzione ce l'ho più meno da sempre, ma mi si è accentuata dopo aver visto Oppenheimer, il film di Christopher Nolan, che mi ha offerto una nuova prospettiva sulla Seconda Guerra mondiale.
L'altro punto di vista è quello di Alan Turing, una persona (a mio parere) opposta ad Oppenheimer.
Se dovessi descrivere il contributo che Oppenheimer ha dato durante la guerra userei la parola scienza.
Se invece dovrei descrivere il contributo di Turing direi... scienza.
La differenza? L'uso che ne hanno fatto.
· Robert Oppenheimer
Tutto è iniziato con un articolo sulla contrazione gravitazionale delle stelle di neutroni, che avevo appena pubblicato. Poi ho chiuso il giornale e messo a fuoco il titolo che campeggiava in prima pagina: Hitler ha invaso la Polonia. Fu la preoccupazione (in quanto ebreo) a spingermi a frequentare ambienti socialisti, anche se non mi sono mai iscritto ad alcun partito.
Poco dopo l'inizio della guerra studi sulla fissione nucleare dimostrarono che è possibile generare una reazione a catena utilizzando atomi di uranio.
Ci sono voluti pochi secondi per realizzare a cosa portasse quest'informazione:
a una bomba.
Fu nel 1941 che mi commissionarono la missione di creare una bomba atomica. Nel '42 avevo a disposizione una città a Los Alamos abitata dai migliori scienziati che avevo a disposizione per portare a termine il mio compito.
Tre anni e due miliardi di dollari dopo eravamo pronti all'ultimo test, chiamato il Trinity test.
Alle 5:45:29 secondi del 4 agosto esplose la prima bomba atomica nella storia dell'umanità.
Mentre guardavo il cono di fuoco innalzarsi in mezzo al deserto mi tornò alla mente un passo delle scritture indù: «Sono diventato Morte, il distruttore di mondi».
Ovviamente la consapevolezza di quello che è veramente la bomba atomica mi venne dopo la distruzione di Hiroshima e Nagasaki.
Ammetto che non ero preparato alla morte e alla distruzione che avevo contribuito a creare; per questo mi sono opposto con tutte le mie forze alla ben più pericolosa bomba H, la bomba ad idrogeno.
Dopo la guerra l'FBI mi sottopose ad un estenuante processo per i miei presunti legami con il Partito comunista.
Ma nonostante tutto riuscii a vincere l'Enrico Fermi Award, la Francia mi conferì l'onorificenza dell'Ufficiale della Legion d'Onore e l'Inghilterra mi fece membro straniero della Royal Society.
· Alan Turing
Non sono mai stato una persona normale. Almeno non per la gente. Secondo gli altri, le persone normali non pubblicano articoli scientifici a ventiquattro anni. Le persone normali non vengono rinchiuse sotto le assi di un pavimento. Le persone normali non sono attratte da persone dello stesso sesso. Le persone normali non dirigono un progetto top secret durante la guerra.
Per quelli di voi che non conoscono Enigma, beh, è molto facile: è una macchina che i tedeschi usavano per codificare i messaggi che si inviavano via radio durante la guerra. E io, altri quattro uomini e una donna dovevamo risolverla.
Enigma ha 159 di milioni di milioni di milioni di combinazioni, e noi dovevamo trovare quella che avevano usato la mattina per spedire le informazioni: poi a mezzanotte cambiavano le impostazioni della macchina, e tutto il lavoro di una giornata era inutile.
Se avessimo avuto dieci uomini a controllare un'impostazione al minuto, ventiquattr'ore su ventiquattro, sette giorni alla settimana, sapete quanto ci avremmo messo? Ve lo dico io, non ore, anni. Venti milioni di anni. Per impedire un attacco imminente, dovevamo effettuare controlli che richiedevano venti milioni di anni in venti minuti.
Il vero problema è che noi usavamo delle persone per cercare di battere un meccanismo molto ben progettato, ma se solo una macchina potesse battere un'altra macchina?
Quindi mi misi a progettarne una: la Bomba. Una macchina capace di cercare la combinazione corretta dei rotori tra tutte le combinazioni possibili. Divisa in tre batterie ciascuna contenente dodici colonne di tre tamburi ciascuna. Ogni tamburo rappresentava un rotore, quindi ogni tripletta una intera macchina enigma.
Funzionò. Ma ora sorgeva un problema. Un problema enorme.
Cosa avrebbero pensato i tedeschi se d'improvviso avessimo sventato ogni attacco nemico?
Esatto. Avrebbero capito che avevamo decifrato Enigma. E avrebbero smesso di usarla.
Allora chiedemmo aiuto all'MI6. E ci mettemmo d'accordo che noi, attraverso statistiche, avremmo calcolato il numero minimo di mosse per vincere la guerra e il numero massimo per non far sospettare nulla ai tedeschi.
La guerra si trascinò per altri due anni. E ogni giorno eseguivamo i nostri calcoli imbrattati di sangue. Ogni giorno decidevamo chi restava in vita e chi moriva. Ogni giorno aiutavamo gli Alleati a vincere senza che nessuno lo sapesse. Stalingrado, le Ardenne, l'invasione della Normandia; tutte vittorie che non sarebbero state possibili senza le informazioni che noi fornivamo.
La gente parla della guerra come un epico scontro tra civiltà, libertà contro tirannia, democrazia contro nazismo. Milioni di soldati caduti sul campo, intere flotte sul fondo degli oceani, aerei che sganciavano bombe fino ad oscurare il sole. Per noi non era questa la guerra; per noi la guerra era una mezza dozzina di fanatici dei rompicapo in un villaggio dell'Inghilterra meridionale. Mi accusarono di voler imitare Dio. Ma lo ero davvero? No, perché non fu Dio a vincere la guerra, ma noi.
Dopo la guerra tornai a Cambridge. Il 31 marzo 1952 precipitò tutto. Fui arrestato per "atti osceni"; tradotto: omosessualità. Mi imposero la terapia ormonale, ovvero la castrazione chimica.
Il 7 giugno 1954 mi tolsi la vita.
·Conclusioni
I due "racconti" che avete letto sono un mio modo per spiegarvi la vita di questi due geni, uguali e opposti.
Ora voglio porvi una domanda: chi ha vinto la guerra? Turing o Oppenheimer?
Ve la metto in un altro modo;
Oppenheimer, con le due bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki, causò 210 mila morti.
Turing salvò 14 milioni di vite, accorciando la guerra di due anni.
Quindi chi ha veramente vinto la guerra?, chi ha ucciso o chi ha salvato?
Lasciamo questa domanda da parte per un momento, e concentriamoci invece su un'altra questione, altrettanto importante: quello che è successo dopo il conflitto.
Oppenheimer è stato premiato per il suo lavoro scientifico, che ha causato un numero enorme di vittime.
Turing è stato condannato per la sua diversità, che non faceva male a nessuno.
E questo la dice lunga sul grado di ignoranza, violenza e stupidità che spesso e volentieri l'essere umano raggiunge.
Avete visto Oppenheimer, il film di Christopher Nolan? Ve lo consiglio. Sapete, c'è una storia che il film non racconta: ricorderete sicuramente la scena ricorrente nella quale Oppenheimer mette le biglie in una boccia di vetro; quelle biglie corrispondono all'uranio estratto e raffinato con successo. Man mano che il film procede le biglie, che prima venivano aggiunte una alla volta, vengono aggiunte a manciate. Nel film non si fa accenno a come due terzi dell'uranio furono raccolti: in una miniera profonda ventiquattro piani nel Katanga, in Congo: una miniera dove minatori africani trasportavano terra e pietre per smistare a mano cumuli di materiale radioattivo.
Immaginate le condizioni di vita dei congolesi: i bambini imparavano a scuola che gli africani erano arretrati e secondari rispetto agli occidentali; l'istruzione oltre la quinta elementare era illegale e le persone erano ridotte al limite della schiavitù.
Quindi ai morti di Hiroshima e Nagasaki vanno sommati i morti che sicuramente ci sono stati nelle miniere.
Chi ha vinto la guerra è una domanda con due risposte che cambiano a seconda della persona a cui viene posta la domanda.
È un punto di vista. Un puro e semplice punto di vista.
Nicolas Ugolini
L'insegnamento dei libri
Fin da quando avevo sette anni passavo il mio tempo a leggere, e fin da allora mi sono dovuto sorbire dai miei coetanei sempre la stessa domanda: «ma perché leggi?, tutti quei personaggi neanche esistono, è una perdita di tempo», e ogni volta mi piace rispondere sempre con la stessa frase, molto simile ad una di Umberto Eco: "chi non legge, a settant'anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge invece avrà vissuto cinquemila anni; c'era quando Sherlock Holmes si buttò nelle Reichenbach, quando Frodo lanciò l'anello nel Monte Fato, quando il Mule fu sconfitto… perché la lettura è un'immortalità all'indietro". E poi non è vero che se i libri non sono di scuola non ti insegnano niente: "Fahrenheit 451" mi ha insegnato il valore della conoscenza, il "Signore degli Anelli" mi ha insegnato l'importanza dell'alleanza fra persone diverse tra loro, "Billy Elliot" mi ha insegnato ad essere me stesso, "Sherlock Holmes" ad osservare, "Io, Robot" mi ha insegnato a non avere paura del progresso, l'"Iliade" ad avere rispetto per il passato; i libri di Asimov mi hanno insegnato ad amare la scienza, quelli Riordan la mitologia, quelli di Tolkien la natura e quelli di Doyle tutto ciò che è strano, ma paradossalmente perfettamente in simbiosi con tutto il resto. Quindi no, non è inutile leggere, perché leggere ti cambia. Quando finisci un libro, non sei lo stesso che l'ha iniziato; certo che sei ancora tu, il tuo aspetto è lo stesso, la tua vita anche, ma qualcosa in te è cambiato: qualcosa nel modo di pensare, il modo in quei scegli, le riflessioni che fai, a volte anche le cose che dici possono essere diverse.
Leggere non è una perdita di tempo, perché avrai sempre qualcosa da raccontare, e d'altronde lo dice anche Baricco, che stupido non era, che "un uomo non è mai finito quando ha una bella storia e qualcuno a cui raccontarla".
Nicolas Ugolini